Archivi categoria: Film

In ordine di sparizione

Titolo originale: Kraftidioten

Di: Hans Petter Moland

Visto con un ritardo di: 2 anni

In: italiano

IMDb

Perché sì:

– Mettete Liam Neeson alla guida di uno spazzaneve e avrete un’idea del personaggio principale: sguardo impassibile e assetato di vendetta, ma ovviamente motivato dal più nobile degli intenti.

– Un mix di umorismo nordico ben riuscito, tristezza di fondo e violenza abbastanza cruda da farmi distogliere lo sguardo un paio di volte. Vabbé, io distolgo lo sguardo pure quando Tom e Jerry si menano, ma qui giuro che si menano molto di più.

– A me questo che corre come un matto con lo spazzaneve in mezzo al nulla (innevato, chiaramente) ha fatto venire in mente certe mie serate passate a giocare a GTAV, di cui abbiamo una diapositiva:

gtav

Perché no:

– L’ironia di cui è intrisa tutta la storia mi è piaciuta molto: non ha nulla della commedia caciarona italiana e mantiene sempre un tono assolutamente discreto. L’unico appunto a riguardo è che i tanti cattivi a cui il paladino del bene si oppone saranno pure violenti, ma a volte passano un po’ per macchiette e prenderli sul serio non è sempre facile.

– Ho passato diversi minuti a cercare di capire perché il protagonista venga a un certo punto definito immigrato. Nella versione doppiata parlano tutti la stessa lingua senza accenti, e la sua provenienza non è mai citata. Si intuisce che si tratta di variazioni sul tema Norvegia/Svezia/Danimarca (per me un po’ “una fazza, una razza”), ma m’è rimasto ‘sto quesito irrisolto finché non mi sono documentata dopo la visione.

PS: Oh, giuro su tutto quello a cui tengo di più che solo *dopo* aver scritto la bozza di questa scheda ho letto in rete questo articolo che conferma che dovrei lavorare a Hollywood.

Big Hero 6

Di: Don Hall, Chris Williams

Visto con un ritardo di: 1 anno

In: italiano

IMDb

Perché sì:

– Se esistesse davvero la città di San Fransokyo, ambientazione di questo film, credo che mi ci sarei già trasferita da un pezzo.

– Niente da dire, il robot protagonista è adorabile. L’aspetto ingombrante e dichiaratamente coccoloso è adorabile, l’involontario humor è adorabile e il fatto che quando abbia la batteria scarica si comporti palesemente come un uomo ubriaco è adorabile. Il fatto che la batteria si scarichi una volta e poi nel film non ricapiti più dopo che Baymax fa ben più cose del previsto, invece, è un’incongruenza su cui chiuderò un occhio, visto che non è certo la cosa peggiore del film.

Perché no:

– Il problema maggiore è che gli altri protagonisti, all’infuori del robot, non sono così adorabili. Certo, sono simpatici, il ragazzino fa tenerezza, però sembrano solo un contorno che ruba spazio alle gag di Baymax.

– Lo stesso vale per la storia, scontata e buttata lì senza nessun tipo di approfondimento su una miriade di avvenimenti che invece darebbero buoni spunti. Una storia in cui ogni problema si risolve in 4 secondi grazie alla geniali doti del ragazzino prodigio, per poi passare al finto problema successivo e alla relativa geniale soluzione, in un infinito susseguirsi di gadget tecnologici creati come per magia (quando invece il tema centrale è la robotica, che è ben altro). Se tutto fosse così facile e a disposizione, viene da dire, perché allora i “cattivi” fanno tutte queste storie per appropiarsene?

Venere in pelliccia

Titolo originale: La Vénus à la fourrure

Di: Roman Polanski

Visto con un ritardo di: 2 anni

In: italiano

IMDb

Perché sì:

– Evidentemente io e il regista siamo entrambi grandi fan dei film “teatrali”, con pochi attori e un unico scenario. Bravo Roman, ti stimo.

– La confusione tra i personaggi del film (un’attrice e l’autore dell’adattamento teatrale) e quelli dell’opera che devono mettere in scena va via via aumentando, ma le modalità con cui si passa da un mondo all’altro sono intelligenti e ottengono ottimi risultati. Ossia: se sono riuscita io a tenere il filo della cosa, può farcela chiunque.

– L’analisi esplicita che viene fatta del testo da recitare, discusso e sviscerato nei dialoghi, è quella che in buona parte dei film che vedo mi servirebbe per capire tutto quello che va oltre il “mi piace” o il “non mi piace”, cosa che di solito non mi viene facilissima.

Perché no:

– Ammetto che, nonostante il genere mi piaccia molto, questo film mi è piaciuto molto meno di altri. Forse il motivo è semplicemente che il tema non è certo dei più approcciabili e il livello di pretese intellettuali sfiora veramente il fastidioso.

– Nonostante le analisi e le interpretazioni del testo che vengono fatte dagli attori, non sono del tutto sicura di aver capito il messaggio e il senso della cosa. Né sono sicura di avere capito il finale. Come credi che mi faccia sentire questa cosa Roman, eh? Eh? La prossima volta ti toccherà farmi dei disegnini, probabilmente.

Il nome del figlio

Di: Francesca Archibugi

Visto con un ritardo di: meno di un anno!

In: italiano

IMDb

Perché sì:

– Una commedia italiana basata su una commedia francese… diciamo che non è certo un film che mi sarei scelta se non ne avessi letto piuttosto bene in passato. E infatti si è rivelato guardabilissimo e addirittura carino.

– Sicuramente i personaggi sono stereotipati, ma allo stesso tempo sono credibili e ben articolati. Anche il contesto, una cena tra amici di vecchia data che si trasforma in un’occasione per tirare fuori tutte le amarezze e le critiche che non si sono mai detti, passa in modo molto saggio dall’essere una prospettiva assolutamente normale al rappresentare un incubo vero e proprio.

– La dipendenza dalla tecnologia è incarnata da un commensale costantemente impegnato a scrivere su Twitter: io credo di non essere a questi livelli, ma forse in passato ci sono andata vicina. In ogni caso, il fastidio che ho provato verso questo personaggio è sintomatico della saturazione che ho raggiunto da questo punto di vista, cosa che credo stia giustamente succedendo a molte persone.

Perché no:

– I flashback della gioventù dei protagonisti sono sicuramente funzionali, danno maggiore contesto e giustificano il presente. Però che posso dire… mi sono sembrati la parte meno azzeccata, e li ho trovati un elemento di disturbo che spezzava eccessivamente il ritmo della storia principale.

– Anche io ho amici di vecchissima data con cui mi è capitato millenni fa di cantare immotivatamente canzoni in allegria (ricordo ancora con imbarazzo una “Come mai” degli 883 sbucata fuori dal nulla in un capodanno sotto la neve e cantata da tutti a squarciagola senza sapere perché). Ne vado fiera? No, ma sono comunque dei ricordi a cui penso con tenerezza. Vent’anni dopo, a una cena con gli stessi amici, mi metterei sull’onda della tenerezza a cantare e ballare la stessa canzone allo stesso modo, senza motivo? No, no, e ancora no. Che pena.

Irrational Man

Di: Woody Allen

Visto con un ritardo di: meno di un anno!

In: italiano

IMDb

Perché sì:

– L’ho rifatto, sono andata al cinema per capodanno. Trovatemi qualcuno che mi ci porti tutti gli anni perché non voglio mai più passare la mezzanotte dell’ultimo dell’anno fuori da una sala cinematografica.

– La storia alla base del film non è per niente male, il concetto dell’uomo che ha perso la voglia di vivere e affonda in un mare di apatia finché non trova uno scopo nella vita è reso originale dal fatto che questo scopo è sicuramente inaspettato e tutt’altro che banale. Non basta l’amore per la gnocca di turno, non basta la realizzazione lavorativa. Qui l’insoddisfazione è molto più profonda e, di conseguenza, anche per uscirne serve uno stimolo esagerato.

– Senza parlare nel dettaglio di quale sia lo scopo che trova il protagonista, possiamo dire che le questioni etiche che solleva si armonizzano perfettamente con il suo ruolo di professore di filosofia, che qui ci sta come il cacio sui maccheroni anche se personalmente l’ho sempre trovata una materia insulsa (cosa insolita direi, per una che si ammazza di seghe mentali).

– La colonna sonora è fuori dalle mie corde ma azzeccata e davvero piacevole. Accompagna i bei paesaggi sull’oceano in maniera semplicemente perfetta.

Perché no:

– Non sono a priori contro Woody Allen che fa film seri, ma in questo caso ho trovato i dialoghi di un piattume che non mi sarei aspettata. Manca la verve che caratterizza Woody, la vivacità che non deve essere per forza comica ma che con un Allen più in forma rende sicuramente tutto più intenso.

– Non si capisce bene che piega debba prendere la storia. Non è un thriller, non è una storia romantica, non è di fatto niente di specifico. Con dei dialoghi più azzeccati questo problema sarebbe stato assolutamente sorvolabile, ma visto che quelli non mi hanno soddisfatta avrei avuto bisogno di altre motivazioni per farmi assorbire da una storia che invece ho seguito con molto distacco.

– Da anni ormai il mio avatar su Skype è la faccina di una bambolina coi capelli rossi e gli occhioni blu (uniche cose che ci accomunano, e vedere il mio naso vi basterebbe per capire cosa intendo). Dopo aver visto questo film, credo che dovrò cambiare umilmente avatar e passare lo scettro a Emma Stone, per ragioni più che evidenti. Emma, fai pure. Mi consolo col fatto che hai una carnagione da morto vivente pure tu quindi la prossima volta che qualcuno mi rompe le palle in proposito mostrerò direttamente una tua foto.

dittico

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza

Titolo originale: En duva satt på en gren och funderade på tillvaron

Di: Roy Andersson

Visto con un ritardo di: 1 anno

In: Italiano

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Perché sì:

– Gli ingredienti c’erano tutti: il regista nordico, un titolo geniale, la comicità mischiata alla tristezza. Diciamo che non è andata come speravo.

– Se si riesce a stare svegli per tutto il film, alcune “ironie” sulle conversazioni futili di ogni giorno sono piuttosto azzeccate e ci sono degli spunti interessanti sulla tristezza e la crudeltà della società moderna. Come si suol dire, si prende quel che passa il convento.

Perché no:

–  Ironia è una parola grossa, in questo caso enorme. Forse la comicità nordica non è troppo nelle mie corde, ma è evidente che questa voleva essere una commedia amara e io ho riscontrato solo il lato amaro del tutto. Tra uno sbadiglio e l’altro.

– Sembra che la parola più usata per descrivere questo film sia “surreale”. Mi sta benissimo, ma mi sta meno bene che venga usata per far passare per interessante una cosa noiosa, noiosa, e ancora noiosa.

– Ho avuto l’impressione di guardare quei programmi orribili che Italia 1 propina all’ora di cena, con una serie di scenette con interpreti e scenari diversi, montate senza alcun collegamento tra loro. Lo sforzo di far ridere era praticamente lo stesso, così come purtroppo il risultato.

Si alza il vento

Titolo originale: Kaze Tachinu

Di: Hayao Miyazaki

Visto con un ritardo di: 2 anni

In: italiano

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Perché sì:

– Un film dello Studio Ghibli con la regia di Miyazaki sta a un film dello Studio Ghibli senza la regia di Miyazaki come Beethoven sta a Giovanni Allevi. In precedenza, sugli ultimi due film dello Studio Ghibli che ho visto, ho scritto che volevo la fantasia sfrenata e che il troppo realismo era una pecca. Mi sbagliavo. Qui l’unica componente davvero fantastica è quella onirica, in cui tutto è soffice e elastico, anche le bombe e le ali degli aerei. Per il resto si parla di amore, di guerra e di ambizioni personali, il tutto con i piedi ben saldi per terra. Nonostante la mancanza di creature fantastiche e componenti magiche, la noia rimane alla larga.

– La poesia e la magia sono presenti, solo che non sono nei temi ma nel modo in cui il regista rappresenta qualcosa di altrimenti invisibile. Il concetto del volo viene reso grafico e quasi tangibile, l’orrore del terremoto viene comunicato (benissimo, fidatevi) non solo dalle immagini ma dal suono inquietante che gli viene attribuito.

– L’amore. Solitamente nei film di Miyazaki esiste come concetto, ma è sempre qualcosa di diverso dalle canoniche storie d’amore a cui siamo abituati a pensare. Qui invece un uomo e una donna si conoscono, si riincontrano, si piacciono, si innamorano, e così via. C’è addirittura una velatissima allusione a – udite udite – il sesso. Non è nient’altro che un lasciar pensare, ovvio, ma c’è. E sono proprio contenta che questa cosa di vedere con l’occhio di Miyazaki la vita di un uomo e di una donna normali nell’arco di svariati anni ci sia stata concessa, prima che il buon Hayao andasse in pensione.

– Sarò di parte perché il fascino del Giappone lo subisco da tempo immemore, ma come si fa a vedere questo film e a non volersi ritrovare a Tokyo negli anni ’20-’30, io mi chiedo? Le scene del matrimonio tradizionale sono una delle cose più belle che si possa immaginare.

Perché no:

– Io ho avuto seri problemi per almeno tutta la prima parte del film a mettere a fuoco il passare del tempo e l’eta dei personaggi. I salti temporali non sono chiaramente indicati, sicuramente per scelta, e devo ammettere che il fatto che i faccioni dei cartoni animati giapponesi siano sempre uguali non mi ha aiutata.

– Non conosco il giapponese ma leggo che il linguaggio di quegli anni era ricco di formalismi anche all’interno della stessa famiglia, e che nel film hanno cercato di riprodurre fedelmente questa cosa. Credo che però la traduzione e l’adattamento in italiano si sforzino troppo di ricreare questo aspetto non per forza applicabile alla nostra lingua, ottenendo come risultato un linguaggio molto strano e innaturale in gran parte del film. La prossima volta sottotitoli, e via andare, perché sentire i personaggi parlare come dei rimbambiti in un film così bello fa male al cuore.

Nick Cave – 20.000 days on Earth

Titolo originale: 20.000 days on Earth

Di: Iain Forsyth, Jane Pollard

Visto con un ritardo di: 1 anno

In: inglese

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Perché sì:

– È un film? È un documentario? Chi siamo noi comuni mortali per saperlo. Nick Cave cerca di farci credere che conduce una vita normale e regolare. “Mangio, scrivo, gioco coi miei figli”. Forse non è più il folle eroinomane che era anni fa, ma lui e la normalità saranno sempre due cose che non hanno molto in comune, e la cosa è evidente anche in questo che non è né un film né un documentario, ma allo stesso tempo è un po’ entrambi.

– Ricordo al suo concerto di avere pensato che sia alquanto strano come un uomo oggettivamente brutto riesca a emanare un fascino piuttosto forte. Alcuni lo subiscono più di altri, forse, ma il magnetismo è innegabile. Credo che sentendolo parlare di come vive i live e di quello che cerca nelle sue esibizioni si capisca un po’ meglio da dove viene tutto questo. Sempre brutto rimani, Nick, ma tanto di cappello.

– A me lui che sale in macchina e spegne immediatamente la radio appena sente Can’t get you out of my head di Kylie Minogue ha fatto ridere tantissimo, perché è una scena che ha un sottotesto tutto suo. Che mattacchione.

Perché no:

– Si tratta di una visione piuttosto interessante (anche se non imperdibile, dal mio punto di vista) se già si è caduti nel vortice della sua musica, delle sue canzoni, del suo filosofeggiare e della sua perenne inquietudine. Ma si parte dal presupposto che chi guarda sappia già molto di Cave, quindi chiunque non conosca un po’ il suo mondo si troverà probabilmente a chiedersi cosa caspita sta guardando, e perché sta sorbendosi dei gran monologhi introspettivi di un tizio con la faccia sempre incazzata e dei gran dialoghi con gente che non viene nemmeno identificata con una scritta in sovrimpressione.

– Il fatto che Nick Cave abbia degli archivisti che si occupano delle sue foto e dei suoi scritti la dice lunga sulla considerazione che ha di sé stesso e di quello che produce. Immagino che la parte “documentaristica” volesse essere rappresentata proprio dalla visita all’archivio, dove in tutta velocità si parte dall’infanzia e si arriva ai successi musicali. Ma sorbirsi racconti senza capo né coda guardando foto e oggetti a caso come quando fai visita ai nonni non equivale a fare un documentario.

UPDATE: mi dicono che l’archivio non esiste ed è solo una trovata per il film. Meno male perché l’avevo trovata una cosa veramente esagerata pure per il soggetto in questione.

Schede condensate

In questi mesi di silenzio ho visto o rivisto qualche film, anche se non troppi. Non ho scritto bozze su di loro ed è passato troppo tempo per fare delle schede, quindi ecco un mischione di cose a caso che mi ricordo.

Francis Ha (2012) di Noah Baumbach

È un film carino, niente da dire, con uno dei discorsi sull’amore più centrati che abbia mai sentito buttato lì come se niente fosse in mezzo a cose sceme. Però la protagonista è un personaggio estremamente irritante per quanto mi riguarda: una un po’ “fusa”, stralunata, esagitata, che balla un po’ troppo quando non c’è musica… insomma, quel mix di impacciata e strana che sembra parecchio studiato e ostentato. Ne ho conosciute di tipe così e mi sono sempre state sulle balle. Forse sto invecchiando, ma mi è sembrato un film da giovani hipster.

Cobain: Montage of Heck (2015) di Brett Morgen

Ovviamente il documentario non dice niente di nuovo, ma può essere interessante per i fan che vogliono scoprire cose più personali sulla vita del povero Kurt, a partire dall’infanzia. Infatti vedova e figlia (che non compare ma è tra i produttori) ci tenevano un sacco a farci ficcare il naso nell’intimità familiare e di coppia di una persona che non ha retto il peso della celebrità e la pressione dello show business, e lo fanno mostrandoci fotografie e filmati personali accompagnati da interviste a familiari e amici. Controsenso? Non lo so, ma spicca l’assenza di Dave Grohl tra gli intervistati, il che mi fa fare mille congetture sulla sua possibile disapprovazione.

Selma (2014) di Ava DuVernay

Madonna che due coglioni. L’argomento poteva essere interessante, ma il risultato finale è di una pesantezza unica.

Going Clear: Scientology and the Prison of Belief (2015) di Alex Gibney

Se non sapete niente di Scientology, questo documentario vi lascerà lì con la bocca aperta e la fede nell’umanità incenerita. Io ne sapevo qualcosa da lunghi articoli letti in passato, quindi per me non erano tutte novità, ma sentire degli ex-fedeli che hanno fatto parte del culto per decenni raccontare in prima persona le loro esperienze e motivare il loro allontanamento è comunque estremamente interessante. Ci meritiamo l’estinzione.

Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos Forman

Filmone, filmone, filmone. Un po’ lungo, un po’ lento, ma filmone. Jack Nicholson è sempre bravo a fare quello fuori di testa, e la malinconia generale la fa da padrona. Filmone.

Juno (2007) di Jason Reitman

Film simpatico e commovente con dei dialoghi azzeccatissimi (NdR: in inglese, almeno), anche se poco credibili: se incontrassi dei sedicenni che parlano e ragionano davvero così avrei paura, anche se forse il mondo sarebbe un mondo migliore. Comunque davvero notevole per il mix di leggerezza e serietà.

Paura e delirio a Las Vegas (1998) di Terry Gilliam

Io non riesco a spiegarmi perché questo film, che sulla carta avrebbe tutte le carte in regola per piacermi molto, mi annoi invece da morire. È la seconda volta che lo guardo, proprio perché mi ero autoconvinta che magari, dopo anni, rivederlo mi avrebbe fatto un effetto diverso. E invece niente. Mi rendo conto che fare un film su due persone costantemente sotto l’effetto di droghe pesanti autorizzi a raccontare una storia completamente sconnessa e senza senso, ma non mi piace guardare cose sconnesse e senza senso. In più non mi fa ridere neanche un po’, anche quando vorrebbe far ridere. Non credo che ci sarà una terza volta, ma se lo rivedrò lo farò sotto l’effetto di droghe pesanti, magari renderebbe il tutto più sopportabile.

Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

Da anni non lo rivedevo, e devo dire che ogni volta che lo rivedo mi piace di più. Impressionante vedere la sgradevole trasformazione di Michael in suo padre, in un racconto violento che decisamente non idealizza il mondo della mafia. Non a caso è considerato uno dei più bei film di tutti i tempi. Concordo, e ora mi tocca rivedermi pure gli altri due.

Mad Max: Fury Road

Di: George Miller

Visto con un ritardo di: meno di un anno!

In: italiano

IMDb

Perché sì:

– Chi mi conosce, e chi non mi conosce ma per motivi a me inspiegabili legge queste pagine (grazie!), sa benissimo che non sono una da filmoni spacchiusi e tamarri. Nonostante questo, Mad Max: Fury Road mi ha gasata da morire. Perché è un filmone spacchiuso e tamarro fatto da dio.

– È tutto molto steampunk, che non è il mio stile preferito ma qui è talmente perfetto che non gli si può dire nulla. E a riequilibrare il tutto c’è la macchina coi tamburi e la chitarra elettrica per la musica live che fa da sottofondo agli attacchi, che è una delle cose più metal che abbia mai visto.

– Charlize Theron non è solo figa perché è figa, ma perché passa dal ruolo di tontolona in Arrested Development a ruoli come questo con una nonchalance che solo lei.

Perché no:

– Un’unica azione lunga due ore. Personalmente la cosa non mi è pesata, il che è già tutto dire, ma se siete in cerca di un minimo di storia lasciate perdere. Qui si dà la precedenza al puro godimento visivo e adrenalinico.